7 lug Itri 1911, guerra tra poveri. Tutti italiani Di Gian Antonio Stella Il linciaggio degli operai sardi, accusati di sottrarre il lavoro alla gente del luogo Una pagina nera Il sindaco sobillò le azioni violente come molti amministratori stranieri facevano contro i nostri immigrati Il ruolo della malavita Siamo di fronte a un precedente della sparatoria di Castel Volturno e dei gravi incidenti di Rosarno Era passato appena un mese da quel 4 giugno 1911 in cui Vittorio Emanuele III, che gli irriverenti chiamavano «Sciaboletta» per la statura brevilinea, aveva inaugurato il Vittoriano. Appena un mese da quando i giornali avevano sottolineato le due iscrizioni sui propilei che riassumevano solennemente il senso di quel gigantesco monumento. La prima era Patriae unitati: all´unità della patria. La seconda Civium libertati: alla libertà dei cittadini. Due intonazioni impegnative. Forse troppo impegnative. E pochi episodi come la strage di operai sardi nella cittadina di Itri, raccontata nel libro I giorni del massacro (Carlo Delfino editore) da Antonio Budruni, dimostrano quanto, mezzo secolo dopo l´unità d´Italia, fosse ancora attuale il testamento politico di Massimo d´Azeglio, che nella prefazione al libro di memorie I miei ricordi aveva scritto parole amare. Rileggiamole: «L´Italia da circa mezzo secolo s´agita, si travaglia per divenire un sol popolo e farsi nazione. Ha riacquistato il suo territorio in gran parte. La lotta collo straniero è portata a buon porto, ma non è questa la difficoltà maggiore. La maggiore, la vera, quella che mantiene tutto incerto, tutto in forse, è la lotta interna. I più pericolosi nemici d´Italia non sono gli Austriaci, sono gl´Italiani. E perché? Per la ragione che gl´Italiani hanno voluto far un´Italia nuova, e loro rimanere gl´Italiani vecchi di prima, colle dappocaggini e le miserie morali che furono ab antico il loro retaggio; perché pensano a riformare l´Italia, e nessuno s´accorge che per riuscirci bisogna, prima, che si riformino loro, perché l´Italia, come tutti i popoli, non potrà divenir nazione finché grandi e piccoli e mezzani, ognuno nella sua sfera non faccia il suo dovere. (...) E pur troppo si va ogni giorno più verso il polo opposto: pur troppo s´è fatta l´Italia, ma non si fanno gl´Italiani». A leggere dei fatti di Itri e del ruolo avuto dal sindaco Gennaro D´Arezzo, che per ragioni di bottega clientelare, non diversamente da quanto accade oggi, sobillò la popolazione contro gli immigrati sardi portati a costruire un tronco ferroviario della direttissima Roma-Napoli, sembra di rileggere tante altre pagine nere scritte da altri sindaci, stranieri, contro gli immigrati italiani. Budruni ricorda il sindaco di New Orleans, Joseph Shakespeare, che ebbe un ruolo determinante nello scatenare 20 mila concittadini il 15 marzo 1891 nell´assalto al carcere della contea per linciare undici italiani che erano stati assolti (non condannati: assolti) al processo per l´uccisione di un poliziotto. Ma oltre a quel razzista (...) merita di essere ricordato il sindaco della svizzera Göschenen, che non mosse un dito, il 28 luglio 1875, per difendere gli operai italiani che lavoravano alla costruzione della galleria del San Gottardo ed erano scesi in sciopero per le bestiali condizioni di lavoro (144 uccisi dalle esplosioni di dinamite o dai crolli, centinaia di feriti e di poveretti colpiti da mille malattie) e furono massacrati dalle squadracce radunate dai padroni dei cantieri. O il sindaco di Aigues-Mortes, Marius Terras. Il quale, prendendo le parti dei disoccupati francesi furenti contro gli immigrati italiani che «rubavano il lavoro» nelle saline della Camargue, ai primi incidenti che avrebbero portato alla strage dell´agosto 1893 fece affiggere un manifesto: «Il sindaco della città di Aigues-Mortes ha l´onore di portare a conoscenza dei suoi amministrati che la Compagnia ha privato di lavoro le persone di nazionalità italiana e che da domani i vari cantieri saranno aperti agli operai che si presenteranno. Il sindaco invita la popolazione alla calma e al mantenimento dell´ordine. Ogni disordine deve infatti cessare, dopo la decisione della Compagnia». Per non dire del manifesto successivo, incollato sui muri dopo la bestiale caccia all´italiano che aveva visto l´assassinio, secondo gli storici (la versione ufficiale è assai più riduttiva), di decine di poveretti, il cui numero non è mai stato accertato esattamente: «Gli operai francesi hanno avuto piena soddisfazione. Il sindaco della città di Aigues-Mortes invita tutta la popolazione a ritrovare la calma e a riprendere il lavoro, tralasciati per un momento. (...) Viva la Francia! Viva Aigues-Mortes!». Farfugliò giorni dopo quel sindaco, davanti al console italiano, di avere solo cercato di «placare gli animi». Ma mentre Alessandro Pagliari scriveva una poesia rabbiosa («Furon trenta gli uccisi fratelli! / Fur sessanta i fratelli feriti, / Lacerati da ferri, e randelli! / Cento e cento la fuga salvò! / Non sul campo di patria battaglia / Lasciar vinti la giovane vita! / Una gallica fiera gentaglia / Sul lavor gli operai trucidò!»), i giornali italiani traboccavano di sdegno. Sdegno che nel caso del massacro di Itri sarebbe subentrato - spiega Budruni - solo successivamente. Anticipare qui la cronaca del massacro, le complicità dei carabinieri, il ruolo della malavita non avrebbe senso. I lettori scopriranno pagina dopo pagina una storia agghiacciante. Che rivelerà come la strage di Castel Volturno del settembre 2008, quando sei africani furono assassinati in un eccidio voluto dalla camorra, oppure la caccia all´immigrato di Rosarno del gennaio 2010 istigata dalla ´ndrangheta, per citare due soli episodi, ebbero quel lontano precedente con altri «stranieri»: gli immigrati sardi. Di più: questo saggio sul massacro di Itri, rimasto per un secolo praticamente ignoto, conferma che per troppo tempo la storia italiana è stata raccontata non tutta intera, ma a pezzi. E che via via sono stati nascosti, rimossi, cancellati tanti episodi terribili del nostro percorso nazionale, con l´idea stupidissima e offensiva che su certe cose fosse meglio stendere un velo pietoso piuttosto che aprire una salutare, pubblica, onesta discussione. Un errore gravissimo, del quale paghiamo le conseguenze con la miriade di stucchevoli rivendicazioni padane o neoborboniche contro il processo unitario, spacciato (ancora senza sfumature: prima tutto meraviglioso, oggi tutto spaventoso) come una truffa e come un insieme di orrori negati. Meglio parlarne, delle cose brutte. Ce lo ricorda un articolo di Curzio Malaparte sul «Tempo illustrato» del 1956: «Vi sono due modi di amare il proprio Paese: quello di dire apertamente la verità sui mali, le miserie, le vergogne di cui soffriamo, e quello di nascondere la realtà sotto il mantello dell´ipocrisia, negando piaghe, miserie, e vergogne». L´esperienza insegna, proseguiva lo scrittore, «che la peggior forma di patriottismo è quella di chiudere gli occhi davanti alla realtà, e di spalancare la bocca in inni e in ipocriti elogi, che a null´altro servono se non a nascondere a sé e agli altri i mali vivi e reali. Ne vale la scusa che i panni sporchi si lavano in famiglia. Vilissima scusa: un popolo sano e libero, se ama la pulizia, i panni sporchi se li lava in piazza».